RaccontaRoma



[La recensione] 

 

“La sera a Roma”: un quadro con tutti i colori del mistero - capitolino -. 

 

Il libro di cui ci occupiamo oggi, “La sera a Roma” (Mondadori 2018), è scritto da Enrico Vanzina, uno dei figli dell’indimenticabile e indimenticato regista romano Stefano Vanzina - in arte Steno - tra i capostipiti della commedia all’italiana. È un romanzo giallo che si tinge di noir. Quasi un’analisi spietata del tempo che fugge; ma anche un quadro a mille colori che immortala per sempre, molto più di uno scatto, le nuance e le sfumature di un mondo a parte quale è quello di una certa Roma, specchio, a sua volta, di una certa Italia.

«Era una di quelle sere romane che ti fanno venir voglia di camminare. Ancora non sapevo che, a distanza di poche ore, in quella pacifica serata si sarebbe messo in moto il meccanismo di un misterioso delitto. Un delitto che mi avrebbe cambiato la vita...»  

La trama si dipana nella contemporaneità. Il protagonista è uno sceneggiatore di fama, come l’autore del libro del resto, una sorta di alter ego, che vive la sua professionalità dividendosi tra mille impegni, redazionali, cinematografici e mondani. Un amico gli chiede di aiutare un giovane alle prime armi desideroso di fare del cinema, e il protagonista accetta di incontrarlo, invitandolo una sera a casa sua. Ma l’indomani il corpo dell’esordiente viene ritrovato senza vita. Da qui si dipana la storia, ben intessuta, tra commissari, giornalisti e indagini che mettono in seria difficoltà il nostro sceneggiatore che, essendo stato tra le ultime persone ad aver visto la giovane vittima, è chiamato direttamente in causa. Un coinvolgimento che turba non poco la sua vita privata, matrimoniale innanzitutto. Ma ci fermiamo qui naturalmente.

Se volete leggere il romanzo lo potete acquistare sul nostro sito, nella sezione libri. Buona lettura. 

 

[di Redazione]


Il riconoscimento 

 

La Capitale Medaglia d’oro al Valore Militare per la Resistenza. 

 

Giovedì 25 ottobre 2018, alle ore 10, presso la sede dell’ANPI nazionale, in via degli Scipioni, si terrà una conferenza stampa durante la quale verrà conferita a Roma, con decreto firmato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Medaglia d’oro al Valore Militare per il ruolo resistenziale antifascista - tanto nei valori quanto nelle iniziative realizzate - svolto e ricoperto dalla Capitale d’Italia nell’ambito della storia contemporanea. Il riconoscimento giunge dopo due anni di iter burocratico e approfondite ricerche documentali. 



Il ventennale 

 

Un profilo di Federico Zeri: un intellettuale - eccentrico - controcorrente. 

 

Federico Zeri (1921-1998): il ritratto di un grande critico, nel ventennale della scomparsa. 

 

Nato a Roma il 12 agosto del 1921, Federico Zeri, laureatosi in Storia dell’arte nella Capitale con Pietro Toesca (1944), arricchisce la sua formazione anche attraverso i rapporti con Frederick Antal e Roberto Longhi.

Funzionario dell'amministrazione delle Antichità e belle arti dal 1948 al ‘52, ricopre il ruolo di visiting professor alla Harvard University (Cambridge, Massachusetts) e alla Columbia University (New York). Dal 1975 al 1984 è curatore del J.P. Getty Museum di Malibu e, dal 1993, vicepresidente del Consiglio nazionale dei beni culturali. Nel 1995 viene nominato membro associato straniero dell'Académie des beaux-arts de l'Institut de France.

Profondo conoscitore della pittura italiana dal XIII al XVIII secolo, Zeri affronta con metodo storico-filologico indagini su eventi di rilievo della storia artistica così come su fatti e personaggi minori o periferici, dedicando vari studi alla contestualizzazione e alla ricostituzione del corpus di artisti poco noti.

In “Pittura e controriforma. L'arte senza tempo di Scipione da Gaeta” (1957) esamina i rapporti tra la produzione artistica e la cultura post-tridentina, mentre le sue convinzioni filologiche emergono in “Due dipinti, la filologia e un nome”. “Il Maestro delle tavole Barberini” (1961) e in “La percezione visiva dell'Italia e degli italiani” (1989). Applica il suo metodo di indagine, fondato sul rapporto diretto con l'opera, nella stesura di cataloghi di collezioni pubbliche e private, come: “La Galleria Spada in Roma” (1954), “La Galleria Pallavicini in Roma” (1959), “Italian paintings. A catalogue of the collection of the Metropolitan Museum of Art” (4 voll., in collaborazione con E.E. Gardner, 1971-86), “Census of pre-nineteenth-century Italian paintings in North American collections” (in collaborazione con B.B. Fredericksen, 1972), “Italian paintings in the Walters art gallery” (1976).

Tra i cataloghi da lui curati si ricordano anche quelli della Pinacoteca di Brera e della Narodna Galerija di Lubiana. Fonda inoltre la rivista Antologia di belle arti (1977), e cura dal 1983 la seconda e la terza parte della “Storia dell'arte italiana”, pubblicata da Einaudi.

Numerose sono le raccolte di saggi e contributi - dai quali spesso emerge il carattere polemico dei suoi interventi - dedicate a questioni storico-artistiche ma anche a problemi di varia attualità.

Per ricordarne alcune: “Diari di lavoro” (2 voll., 1971-72); “Mai di traverso” (1982) e “L'inchiostro variopinto” (1985), in parte ripubblicati in “Il cannocchiale del critico” (1993); “Dietro l'immagine” (1987, a cura di Ludovica Ripa di Meana); “Giorno per giorno nella pittura” (4 voll., 1988-94); “Orto aperto” (1990).

Zeri inoltre pubblica varie conversazioni e colloqui autobiografici, tra i quali “Confesso che ho sbagliato. Ricordi autobiografici” (in collaborazione con P. Mauriès, 1995).

L’autorevole critico e storico dell’arte si spegne nella sua villa a Mentana, vicino Roma - lasciata in eredità con annessa biblioteca e fototeca all’Università di Bologna affinché divenisse un Centro Studi, ma attualmente in vendita a causa di problemi di manutenzione -, il 5 ottobre del 1998, all’età di 77 anni.  

Villa Zeri
Villa Zeri

Vacanze romane (1953)
Vacanze romane (1953)

Il referendum 

 

2 giugno 1946: la nascita della Repubblica Italiana.

 

 

Monarchia o Repubblica? È la domanda posta agli italiani con il referendum del 2 giugno 1946. Il 54,3% degli elettori - per la prima volta sono ammesse al voto anche le donne - sceglie la Repubblica con un margine di due milioni di voti, decretando la fine della Monarchia.Umberto II, diventato sovrano un mese prima in seguito all’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, accetta il verdetto e lascia l’Italia con la sua famiglia. Per i Savoia inizia un lungo esilio.  

 

 

“L’attrito più grave all’interno dei partiti della coalizione - ha scritto Pietro Nenni - si manifestò nei primi due mesi del 1946 e rischiò di mettere in crisi il governo De Gasperi”.

Le parole dello storico leader del socialismo italiano si riferiscono al momento in cui si tratta di decidere il tempo e il metodo per effettuare la scelta tra monarchia e repubblica: due questioni che possono avere una forte incidenza sulla presa elettorale di ogni singolo partito. Quanto al metodo, il decreto di Salerno - Decreto legge luogotenenziale 25 giugno 1944 n°151 - prevedeva che le forme istituzionali sarebbero state determinate dalla Costituente. Ma mentre Nenni e Togliatti, la maggioranza dei ministri e inizialmente lo stesso De Gasperi sono fermi a quel deliberato, il ministro liberale Cattani sostiene che la scelta tra monarchia e repubblica deve essere affidata alla diretta consultazione popolare mediante un referendum. In questo senso si orienta poi anche De Gasperi, in seguito Togliatti: si adotta pertanto il referendum. Si discute però se esso debba effettuarsi prima, dopo o durante la Costituente, o se contestualmente.

Le dispute sul modo e sul tempo della scelta istituzionale occupano cinque lunghe sedute del Consiglio dei Ministri dal 19 al 28 febbraio del ’46, con polemiche acute. Infine, il 16 marzo viene fissata la data del 2 giugno per l’elezione della Costituente e per il referendum. Eppure vi è molta incertezza nell’aria. Nenni appunta sul suo diario: “Per il referendum De Gasperi considera sicura la vittoria repubblicana. Togliatti non esclude che noi si rimanga un poco al di sotto del 50 per cento. Io sono di avviso contrario”.

Intanto il 9 maggio Vittorio Emanuele III di Savoia abdica in favore del figlio, che diventa re: Umberto II, il “re di maggio”, come lo chiameranno i repubblicani. È una mossa elettorale intesa ad avvantaggiare Umberto, non coinvolto come il padre nelle responsabilità del fascismo e della guerra. In ogni modo il nuovo re scrive subito a De Gasperi che: “Questo atto non modifica in alcuna maniera l’impegno da me preso nei confronti del referendum e della Costituzione”.

Tuttavia, nonostante le tensioni di quei giorni cruciali, le consultazioni elettorali del 2 giugno sono le più libere e tranquille tra quelle svolte nel ‘46 in tutta l’Europa liberata.

Gli elettori affollano i seggi. Le signore vanno a votare con trepidazione perché per loro è la prima volta: si tengono strette ai mariti che le accompagnano.

Vince la Repubblica e il ministro degli Interni Romita si affretta a darne pubblica notizia.

Dopo l’annuncio il re Umberto ordina la partenza immediata per il Portogallo della regina Maria José con i figli: egli aspetterà soltanto la “proclamazione ufficiale dei risultati”.

Il 10 giugno 1946 dunque la Corte Costituzionale si riunisce in seduta pubblica nel Salone della Lupa a Montecitorio e il suo primo Presidente Giuseppe Pagano, al termine dei conteggi, dichiara: “repubblica, totale dei voti 12.672.767 (54,3%); monarchia, totale dei voti 10.688.905 (45,7%)”.   La Repubblica Italiana è appena nata.  


La piazza 

 

Piazza Venezia: la Storia in una Piazza. 

 

Piazza Venezia: uno spazio di poche centinaia di metri quadrati testimone di innumerevoli eventi storici, come il passaggio dal fascismo alla democrazia e la firma dei Trattati di Roma del 1957, solo per citarne alcuni. Una grande scenografia che si estende intorno al colle del Campidoglio, percorsa ogni giorno da un numero imprecisato di romani e dai sempre più numerosi turisti in visita nella Città Eterna. Attraversiamola insieme! 

 

Ai piedi del Campidoglio si distende in maniera imponente ed elegante Piazza Venezia, il luogo in cui si intersecano alcune delle strade più importanti del centro di Roma: via dei Fori Imperiali, via del Corso e via del Plebiscito cominciano proprio da qui. Ma la piazza ha moltissimi altri motivi per essere visitata e ammirata. Piazza Venezia è infatti il centro topografico di Roma, l'anello di congiunzione tra le varie epoche storiche della città, tra la Roma delle origini e quella dei Papi e allo stesso tempo è la prima piazza di Roma Capitale; la prima piazza dove viene sperimentata l'illuminazione a gas e la prima ad essere servita dall'omnibus a cavalli.

Anche la storia d’Italia più recente passa attraverso questi marmi e questi mattoni, visto che proprio qui, più precisamente dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini ha pronunciato i propri discorsi. In merito sono indimenticabili le immagini di repertorio che ci tramandano una piazza gremita che ascolta l’annuncio della nascita dell’Impero nel 1936, e la dichiarazione di guerra del giugno 1940.

La piazza dunque è situata alle spalle del Campidoglio, nel punto dove si incontrano, come già detto, via del Corso e via dei Fori Imperiali. Ai suoi lati stanno Palazzo Venezia, Palazzo Bonaparte, il Palazzo delle Generali, ma soprattutto la mole grandiosa del Monumento a Vittorio Emanuele II, conosciuto anche con il nome di Vittoriano; il monumento che glorifica la raggiunta Unità nazionale e che fa da altare alle cerimonie dello Stato.

La sua costruzione inizia nel 1885 - il 22 marzo 1885 il Re Umberto I pone la prima pietra - su progetto di Giuseppe Sacconi, e termina nel 1911 ad opera degli architetti Koch, Manfredi e Piacentini. Rimodellato nel 1921 per accogliere la tomba del Milite Ignoto - ossia le spoglie di un soldato italiano sconosciuto caduto nella Prima Guerra Mondiale - è chiamato Altare della Patria. Una scalinata conduce al primo ripiano, al centro del quale, in un'edicola, si trova la statua della Dea Roma fiancheggiata da due bassorilievi, il Trionfo dell'Amor Patrio e il Trionfo del Lavoro. Due scalee laterali salgono alla statua equestre di Vittorio Emanuele II, in bronzo, che sorge sopra una base dove sono rappresentate le principali città d'Italia. La statua, opera di Enrico Chiaradia e Emilio Gallori, è alta e lunga 12 metri, con la figura del sovrano 16 volte più grande del naturale e con un peso complessivo di 50 tonnellate circa. Più in alto si leva un portico di 16 colonne, sormontato da 16 statue delle Regioni d'Italia e lateralmente da due quadrighe bronzee, dell'Unità a sinistra e della Libertà a destra.

La realizzazione del monumento tuttavia non ha mancato di suscitare forti polemiche,legate soprattutto al fatto che, nel costruirlo, non si è tenuto abbastanza conto dell'ambiente in cui il monumento stesso sorge, ossia vicinissimo al Campidoglio e al Foro Romano non lontano dal Colosseo, in pratica nel cuore di Roma. Secondo la critica, infatti, il contesto avrebbe dovuto suggerire scelte architettoniche diverse, più a "misura d’uomo". 

 

Una “misura” che oggi, ahinoi, la città di Roma ha quasi irrimediabilmente perduto.  


La Breccia di Porta Pia
La Breccia di Porta Pia

L'attentato 

 

Violet Gibson: la donna che sparò al Duce. 

 

La storia dell’aristocratica inglese che nel 1926 tentò di uccidere Mussolini in Piazza del Campidoglio, a Roma, in mezzo alla folla.  

 

Il 7 aprile del 1926 Benito Mussolini, dopo aver aperto con un discorso sui progressi della medicina la conferenza internazionale di chirurgia, fa ritorno in Campidoglio salutando dall’automobile scoperta la folla festante. Una piccola signora dimessa, dai capelli grigi, gli spara con una pistola francese che tiene avvolta in un velo nero. Ma il primo ministro si è voltato bruscamente verso degli studenti e la pallottola gli sfiora il naso. Violet Gibson ci riprova: la pistola si inceppa. La donna, sottratta a fatica dal tentativo di linciaggio della folla, viene subito arrestata. Il giorno dopo il duce si presenterà in visita ufficiale in Libia con il naso bendato, come mostrano diverse foto. 

 

Ma chi era Violet Gibson? E perché sparò al Duce? 

 

Violet Gibson era una matura signorina appartenente ad una aristocratica e ricca famiglia anglo-irlandese; il padre Edward diventò Lord Cancelliere d’Irlanda e primo barone Ashbourne. Fin da giovane dà segni di squilibrio mentale dopo la morte del promesso sposo. Insoddisfatta e sfaccendata si converte al cattolicesimo, una religione inadatta alla sua classe sociale e alle sue origini inglesi, e i genitori la mandano con la cameriera a visitare per lunghi periodi l’Italia e la Svizzera, dove segue i seminari di Rudolf Steiner, diventa pacifista e come tale viene schedata da Scotland Yard. Nei giorni dell'attentato alloggia a Roma, presso una comunità di suore, e chiede inutilmente in Vaticano un'udienza privata con il Papa. Pare che quel 7 aprile sia uscita armata con l'intenzione di attentare proprio alla vita del Pontefice e che solo per curiosità si sia poi avvicinata al Campidoglio. Spara quindi due colpi da distanza ravvicinata contro Mussolini che - come detto - avendo appena lasciato i partecipanti ad un congresso internazionale di chirurgia, ha la fortuna di essere assistito al meglio per la ferita al naso. “Certo che me la cavai per un miracolo”, avrebbe dichiarato il Duce incerottato.

Gli agenti, guidati dal questore Benedetto Bodini, responsabile della sicurezza personale di Mussolini, sottraggono dunque a fatica l'attentatrice alla violenza della folla. Violet Gibson, dichiarata non sana di mente, è rimandata al paese di origine e l'opinione pubblica inglese ne rimane molto soddisfatta.

Il fratello della donna si affretta infatti a spedire un telegramma a Mussolini subito dopo l'attentato: “La famiglia di Violet Gibson è addolorata dell'incidente ed esprime i sensi della propria simpatia”.

Prima di partire scrive una lettera alle guardie per ringraziarle dell’ospitalità, e accompagnata dalla sorella, circondata da infermiere e scortata dalla polizia viene messa su un treno per Londra.

Le indagini non furono mai in grado di chiarire il movente del gesto. La pista del complotto è stata sondata, ma non ha portato ad alcun risultato. Le dichiarazioni della Gibson furono contraddittorie e non aiutarono a risolvere il caso. Le perizie psichiatriche la dichiararono insana di mente, motivo per il quale venne chiusa per sei mesi in un manicomio di Roma, durante le indagini. Alla fine, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato dichiarò la donna incapace di intendere e di volere ed emise sentenza di non luogo a procedere. Trasferita in Inghilterra, finì in un altro ospedale psichiatrico, a Northampton, dove morì nel 1956. Sull’imprevedibile attentato, salito agli onori della cronaca nei giorni immediatamente successivi, cadde rapidamente il silenzio. 

Di lì a breve però un altro attentato, ancora a Roma, cercherà di colpire il Duce. 

L'11 settembre del 1926 l'anarchico carrarese ventiseienne Gino Lucetti, noto alla polizia ed emigrato in Francia per motivi politici, lancia una bomba a frammentazione contro l'automobile di Mussolini che transita a Porta Pia. L'ordigno rimbalza sulla carrozzeria ed esplode a distanza ferendo otto passanti. Lucetti per più giorni si è appostato lungo il percorso che la Lancia presidenziale compie da Villa Torlonia a Palazzo Chigi, dove Mussolini ha il suo ufficio. L'attentatore lancia anche una seconda bomba, inesplosa, contro chi lo insegue ma non usa la pistola che ha con sé. La polizia cerca invano le prove di un complotto, arresta la madre, il fratello e la sorella di Lucetti, vecchi amici carraresi e anche chi ha alloggiato con lui in albergo. Lucetti viene condannato dal Tribunale speciale a 30 anni di reclusione. Liberato dalle truppe alleate nel 1943, muore poco dopo, vittima di un bombardamento. 

Ma questa è un'altra storia. 


Il personaggio 

 

Alberto Sordi: storia di un italiano - nel bene e nel male -.  

 

Era impossibile non ri-disegnare un profilo del grande Alberto Sordi anche - e soprattutto - all’interno del nuovo sito “RaccontaRoma”. La sua vita, e la sua straordinaria carriera artistica, è stata davvero un’avventura. Come torniamo a ripetere, senza stancarci di dirlo ancora una volta, l’attore romano ha incarnato infatti meglio di chiunque altro tic, cialtronerie, generosità, coraggio e vigliaccherie di tutti gli italiani. Nessuno provi a sentirsi escluso! Il suo è certamente il ritratto di uno dei più popolari interpreti della storia del cinema italiano; della stessa commedia all’italiana. Ma non va dimenticato che Sordi è stato un attore completo, come pochi, capace di alternare parti di grande intensità drammatica ad altre di geniale comicità. Il tono della sua voce, il suo innato trasformismo, anche e soprattutto nella mimica e nella gestualità, ne hanno fatto dunque un personaggio sui generis. Un outsider di tutti i palcoscenici che, nonostante i presunti e degnissimi eredi, rimane per l’immaginario collettivo un impareggiabile “mostro” di bravura e professionalità, oltre che rappresentare la vera essenza della più bella e profonda romanità. Ciao Alberto! Non ti dimenticheremo mai!      

 

Alberto Sordi nacque a Roma, in via di S. Cosimato, il 15 giugno del 1920 da Pietro Sordi, direttore d'orchestra e concertista presso il Teatro dell'Opera, e Maria Righetti, insegnante. Dopo avere abbandonato l'Istituto d'Avviamento Commerciale 'Giulio Romano' di Trastevere (si diplomerà in seguito studiando da privatista), si trasferì a Milano per frequentare l'Accademia dei Filodrammatici, dalla quale fu espulso a causa del suo spiccato accento romano (soltanto nel 1999 riceverà dall'Accademia un diploma "honoris causa" in recitazione). Nel 1936 tentò senza successo la strada del teatro leggero, poi tornò a Roma, dove partecipò come comparsa al film "Scipione l'Africano". L'anno successivo vinse un concorso della Metro Goldwin Mayer come doppiatore di Oliver Hardy e debuttò nell'avanspettacolo proprio in qualità di imitatore di Stanlio e Ollio, con il nome d'arte di Albert Odisor.

Negli anni Quaranta Alberto si impegnò soprattutto nel teatro e nel doppiaggio, prestando la sua voce anche a Robert Mitchum ed Anthony Quinn, nonché a Marcello Mastroianni per il film "Domenica d'agosto". Il cinema gli concesse solo piccoli ruoli, come "I tre aquilotti", di Mario Mattoli, mentre si affermò nel mondo della rivista di varietà, di gran lunga lo spettacolo teatrale più seguito dagli italiani anche negli anni drammatici e tristi della guerra.

Nel 1943 era al "Quirino" di Roma con "Ritorna Za-Bum", scritto da Marcello Marchesi con la regia di Mattoli. L'anno seguente segnò il debutto al "Quattro Fontane" con "Sai che ti dico?", sempre di Marchesi con regia di Mattoli. Successivamente prese parte alla rivista "Imputati...alziamoci!" di Michele Galdieri e il suo nome apparve per la prima volta in grande nei manifesti dello spettacolo. Alla radio ottenne un successo straordinario con "Rosso e nero" e "Oplà", presentati da Corrado, mentre il suo debutto nel mondo della televisione risale al 1948, quando, presentato alla neonata Rai dalla scrittrice Alba de Cespedes, condusse un programma di cui fu anche autore, "Vi parla Alberto Sordi".

Grazie a queste esperienze diede vita a personaggi come il signor Coso, Mario Pio e il conte Claro (o i celebri "compagnucci della parrocchietta"), personaggi che furono la base primaria della sua grande popolarità e che gli permisero di ottenere (grazie a Vittorio De Sica e Cesare Zavattini) finalmente un ruolo da protagonista nel film "Mamma mia, che impressione!" (1950) di Roberto Savarese. L'anno successivo Federico Fellini gli regalò la grande occasione con la parte dello sceicco romanesco ne "Lo sceicco bianco" e, vista l'ottima prova, il grande regista, nel 1953, lo richiamò anche per un altro film, "I vitelloni", un caposaldo del cinema di ogni tempo, acclamato da subito da critica e pubblico. Nel 1954 uscirono ben 13 film interpretati da Alberto Sordi, fra cui "Un americano a Roma" di Steno, nel quale interpretò Nando Moriconi, lo spaccone romano con il mito degli States (nel 1955 a Kansas City riceverà le chiavi della città e la carica di Governatore onorario, come "premio" per la propaganda favorevole all'America promossa dal suo personaggio). Sempre nel '54 vinse il "Nastro d'argento" come miglior attore non protagonista per "I vitelloni".

Negli anni Cinquanta interpretò, solo per fare alcuni esempi, "L'arte di arrangiarsi" (1955) di Luigi Zampa, "Un eroe dei nostri tempi" (1955) di Mario Monicelli, "Lo scapolo d'oro" (1956) di Antonio Pietrangeli, grazie al quale ricevette il suo primo Nastro d'Argento come miglior interprete protagonista, "Ladro lui, ladra lei" (1958) ancora diretto da Luigi Zampa e soprattutto "La grande guerra" (1959) di Mario Monicelli e "Il vigile" (1960), sempre di Luigi Zampa, dove, nei panni dello spiantato Otello, creò uno dei suoi personaggi più divertenti.

Il successo di Sordi continuò inarrestabile ed ebbe il suo apogeo negli anni Sessanta, il periodo d'oro della commedia all'italiana.

Fra i riconoscimenti vanno ricordati il "Nastro d'argento" come miglior attore protagonista per "La grande guerra" di Monicelli, il "David di Donatello" per "I magliari" e "Tutti a casa" di Comencini (per cui ricevette anche una "Grolla d'oro"), "Globo d'oro" negli Stati Uniti e "Orso d'oro" a Berlino per "Il diavolo" di Polidoro, senza contare le innumerevoli e magistrali interpretazioni in tantissimi altri film che, nel bene o nel male, hanno segnato il cinema italiano.

Nel 1966 Sordi si cimentò anche come regista: ne uscì il film "Fumo di Londra", che si aggiudicò il "David di Donatello", mentre, due anni dopo, tornò a farsi dirigere da altri due maestri della commedia come Luigi Zampa e Nanni Loy, rispettivamente nel grottesco "Il medico della mutua" (una satira che metteva all'indice il sistema sanitario nazionale e i suoi difetti) e nel "Detenuto in attesa di giudizio".

Ne "Il Marchese del Grillo" Sordi espresse il suo poliedrico talento anche nell'ambito del cinema drammatico; una prova famosa per intensità è quella di "Un borghese piccolo piccolo", sempre di Monicelli, che gli valse l'ennesimo "David di Donatello" per l'interpretazione.

"Il marchese del Grillo" (1980), "Io so che tu sai che io so" (1982), con Monica Vitti, "In viaggio con papà" (1982) e "Troppo forte" (1986) con Carlo Verdone, furono i successi degli anni Ottanta, che culminarono al Carnegie Hall Cinema di New York dove, nel novembre del 1985, si svolse la rassegna "Alberto Sordi - Maestro of Italian Comedy".

Nel 1994 diresse, interpretò e sceneggiò, insieme al fedele Rodolfo Sonego, "Nestore - L'ultima corsa": grazie alla rilevanza delle tematiche affrontate, il film fu scelto dal Ministero della Pubblica Istruzione per promuovere nelle scuole una campagna di sensibilizzazione sulle problematiche degli anziani e del rispetto degli animali. L'anno successivo al Festival del Cinema di Venezia, dove venne presentato "Romanzo di un giovane povero" di Ettore Scola, ricevette il "Leone d'Oro" alla carriera. Nel 1997 Los Angeles e San Francisco gli dedicano una rassegna di 24 film che riscossero un grandissimo successo di pubblico. Due anni dopo altro "David di Donatello" per "i 60 anni di straordinaria carriera". Il 15 giugno del 2000, in occasione dei suoi 80 anni, il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, gli cedette per un giorno lo "scettro" di Sindaco della città.

Altri significativi riconoscimenti gli furono assegnati anche da istituzioni accademiche, attraverso l'assegnazione di lauree "honoris causa" in Scienze della Comunicazione (rispettivamente dallo Iulm di Milano e dall'Università di Salerno). La motivazione della laurea milanese recita: "La laurea viene assegnata ad Alberto Sordi per la coerenza di un lavoro che non ha eguali e per l'eccezionale capacità di usare il cinema per comunicare e trasmettere l'ideale storia di valori e costumi dell'Italia moderna dall'inizio del Novecento a oggi".

Alberto Sordi morì a Roma il 24 febbraio del 2003, nella sua casa di piazza Numa Pompilio, all'età di 82 anni, dopo una grave malattia. Il cordoglio e il dolore per la sua scomparsa si manifestarono immediatamente: dal pomeriggio stesso un flusso ininterrotto di ammiratori rese omaggio alla salma nella camera ardente allestita in Campidoglio. Il 27 febbraio si svolsero i funerali solenni nella basilica di S. Giovanni in Laterano, davanti a circa 500.000 persone: per l'occasione un aereo sorvolò i cieli di Roma con la commovente scritta: "'Sta Vorta c'hai fatto piagne!"

 

Alberto oggi riposa nella tomba di famiglia presso il Cimitero del Verano. 




La storia 

 

1849: Storia della Repubblica romana. 

 

La Repubblica Romana del 1849 rappresenta uno degli episodi fondativi della vicenda storica nazionale e il regime politico più avanzato del Risorgimento italiano. Con essa infatti Roma diventa il simbolo, la promessa di un’Italia libera, unita e democratica. Ricostruiamo dunque il contesto e i protagonisti di quel periodo e di quei giorni cruciali.

 

Dopo l’estate del 1848, mentre la rivoluzione si esauriva nell’Italia meridionale, una forte ripresa democratica aveva luogo nel resto del Paese. In Toscana, dove l’idea mazziniana della Costituente italiana fu lanciata dal professore universitario e socialista moderato Giuseppe Montanelli, la pressione democratica, che era particolarmente forte nella città di Livorno, costrinse il granduca Leopoldo II a formare un nuovo governo capeggiato da Domenico Guerrazzi, letterato, anch’egli mazziniano, e dallo stesso Montanelli. A Roma, il 15 novembre fu ucciso il presidente del consiglio Pellegrino Rossi, un moderato che era stato ambasciatore di Luigi Filippo. Le agitazioni che seguirono a questo episodio indussero il papa Pio IX ad abbandonare il suo Stato e a rifugiarsi a Gaeta, dove fu raggiunto in seguito anche dal granduca di Toscana. I democratici organizzarono allora l’elezione di una Assemblea costituente, che il 9 febbraio del 1849 proclamò la fine del potere temporale e l’istituzione della repubblica.

Il potere fu affidato a un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Secondo il disegno di Mazzini, le due regioni democratiche avrebbero dovuto dare l’esempio di superamento dello spirito municipalistico unendosi in un solo Stato repubblicano e democratico. Ma le tendenze municipalistiche nel campo democratico non erano meno forti che in quello moderato, e altrettanto paralizzante era il timore che le rivendicazioni popolari finissero con il prevalere sull’impostazione politica che i democratici intendevano dare alla loro lotta.

Intanto l’ondata democratica raggiunse anche il regno sabaudo dove la reazione contro il moderatismo, suscitata dalla sconfitta, spinse Vincenzo Gioberti ad avvicinarsi alle correnti democratiche. Fattosi portavoce delle critiche nei confronti del municipalismo piemontese, egli ottenne nel dicembre del ’48 la presidenza del Consiglio, incarico che mantenne solo per due mesi. Il suo atteggiamento ambiguo - che si rivelò particolarmente nel progetto di intervento armato in Toscana e a Roma per restaurare i sovrani spodestati - gli fece perdere ben presto sia l’appoggio dei democratici che il consenso della corte.

Al ministero Gioberti seguì un ministero Chiodo-Rattazzi, sotto il quale fu decisa la ripresa della guerra contro l’Austria. Il comando dell’esercito fu affidato al generale polacco Chrzanowski, fatto che di per sé era una prova delle difficoltà politiche e militari in cui la nuova impresa veniva avviata. Voluta dai democratici, la ripresa della guerra avveniva in un momento politico del tutto sfavorevole sia all’interno che sul piano internazionale, ed ebbe quindi rapidamente un esito negativo.

L’esercito sabaudo subì a Novara un’irrimediabile sconfitta il 23 marzo ‘49. Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II, nella speranza che questi potesse ottenere migliori condizioni nelle trattative di pace. Le clausole dell’armistizio, firmato a Vignale il 24 marzo, non comportarono perdite territoriali per il regno di Sardegna. In Toscana, i grandi proprietari moderati e il clero, facendo leva su un’ondata di sanfedismo contadino rovesciarono il governo democratico e aprirono le porte a un corpo di spedizione austriaco che occupò Livorno; favorirono inoltre il ritorno del granduca.

In un quadro politico dominato dalla ripresa reazionaria, soltanto Roma e Venezia mantenevano viva la fiamma della rivoluzione. La loro resistenza, che non poteva certo rovesciare il corso degli avvenimenti, doveva riacquistare un grande significato come riaffermazione di valori ideali e politici destinati a sopravvivere alla sconfitta. Particolarmente significativa, sotto questo aspetto, l’opera che i democratici condussero a Roma nel breve periodo di esistenza della repubblica; opera che fu il frutto della collaborazione di patrioti di tutte le regioni e che anche per questo aspetto rappresenta il momento più alto del patriottismo rivoluzionario Quarantottesco.

Il presidente della repubblica francese, Luigi Bonaparte, si assunse il compito di riportare con la forza Pio IX sul trono. Egli era spinto a questo passo dalla necessità di assicurarsi l’appoggio politico dei clericali francesi per liquidare definitivamente l’opposizione repubblicana e le residue diffidenze dei legittimisti.

Il corpo di spedizione francese, comandato dal generale Oudinot, sbarcò a Civitavecchia il 24 aprile 1849. Sotto le mura di Roma incontrò una resistenza inaspettata e fu battuto a Porta San Pancrazio dalle truppe comandate da Giuseppe Garibaldi. Fu quindi stipulata una tregua, durante la quale Garibaldi sconfisse un contingente borbonico a Palestrina e a Velletri. Il periodo di tregua non era ancora terminato quando Oudinot attaccò nuovamente di sorpresa le difese romane, fra il 2 e il 3 giugno; ma soltanto un mese dopo i francesi riuscirono ad infrangere la tenace resistenza delle milizie romane sostenute dalla popolazione, che diedero splendidi esempi di eroismo negli scontri del Vascello e del Casino dei Quattro Venti.

Il 1° luglio ’49 l’Assemblea costituente riconobbe l’impossibilità di resistere oltre, e nello stesso tempo decise di promulgare, all’atto del suo scioglimento e mentre le truppe francesi entravano vittoriose nella città, la nuova costituzione.

La tenacia con cui la repubblica aveva resistito all’attacco francese non può essere spiegata soltanto con l’entusiasmo dei patrioti e con l’abilità dei capi militari, come Giuseppe Garibaldi e l’esule napoletano Carlo Pisacane. Furono soprattutto l’azione politica di Mazzini - che in quella occasione rivelò notevoli doti di statista - e il suo spirito democratico a creare attorno ai dirigenti della repubblica un largo consenso popolare.

La costituzione romana era l’unica in Italia che prevedesse il suffragio universale; e il triumvirato romano fu il solo governo italiano che avesse cercato, durante l’anno della rivoluzione, di venire incontro ai bisogni delle masse popolari delle campagne, con l’emanazione di un decreto che stabiliva la concessione ai contadini poveri delle terre espropriate agli enti ecclesiastici. Quest’ultimo provvedimento, adottato nel febbraio del 1849, avrebbe dato - se le circostanze ne avessero permessa la realizzazione - una scossa profonda alla struttura agraria arretrata e latifondista della campagna romana.

Una volta decisa la capitolazione, i capi democratici abbandonarono la città. Garibaldi, con alcune centinaia di volontari, cercò inutilmente di portare soccorso a Venezia che ancora resisteva all’assedio austriaco - le trattative per la resa veneziana furono concluse il 26 agosto -. Mazzini lasciò Roma il 5 luglio, lanciando un proclama in cui riaffermava che la repubblica era nata dalla libera e spontanea volontà dei cittadini romani. 



La prima metropolitana di Roma (1955)
La prima metropolitana di Roma (1955)

La mappa del rischio sismico nella Capitale
La mappa del rischio sismico nella Capitale

Cardinale Pietro Bembo (1470-1547)
Cardinale Pietro Bembo (1470-1547)

Ritratti del Rinascimento Italiano   

 

Il Cardinale

 [a cura di Alessandro Quinti]

 

“Capacità ed esperienza nel maneggio degli affari curiali, relazioni familiari o personali con i pontefici, ricchezza, protezione di prìncipi stranieri nel quadro della diplomazia papale”.

E questo è soltanto l’inizio.

Eh già, perché a quanto pare questi furono solamente alcuni dei canali privilegiati attraverso i quali fra il Quattro e il Cinquecento fu possibile “a suon di denaro contante” aprirsi la strada verso i vertici della Chiesa.

Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1510, mentre Giulio II assoldava mercenari svizzeri, sottometteva Modena, dichiarava guerra contro Ferrara e combatteva con il re di Francia, veniva stampato un libro dal titolo “De cardinalatu”, dedicato al pontefice regnante. Nei tre libri dell’opera l’autore Paolo Cortesi, che era stato scriptor (scrivano) e poi segretario apostolico presso la curia pontificia, propose il ritratto dell’ideale “principe della Chiesa”, narrando e descrivendo il ritmo della vita cardinalizia tra serietà religiosa, rigore morale e impegno di governo, tra pubblico e privato, nella severa consapevolezza di un’altissima dignità e dei molti e ardui doveri che essa comportava. Ma ben presto il Cortesi finì con l’abbandonare le sue convinzioni “sotto l’impressione dell’incalzante mutare delle cose nella tumultuosa stagione in cui gli era toccato vivere”.

Al centro della vita politica italiana infatti vi era proprio la Chiesa di Roma, sotto la guida di pontefici capaci di usare spregiudicatamente “fanti e cavalieri” così come “interdetti e scomuniche”, confermando l’universale validità della regola del Guicciardini secondo cui “non si può tenere Stati secondo coscienza”.

Fu quella una Chiesa capace di attrarre energie, di offrire possibilità di azione e di carriera, di fornire canali di promozione sociale al talento e all’ambizione. Lo stesso Guicciardini, che non risparmiò invettive nei confronti di quei “scelerati preti” che il suo “particulare” gli aveva imposto di servire, anch’egli, dicevamo, in giovinezza aveva pensato di farsi chierico: “non per poltroneggiarmi colla entrata grande come fanno la più parte degli altri preti - scriveva - ma perché mi pareva, sendo io giovane e con qualche lettera, che fussi uno fondamento da farmi grande nella Chiesa e da poterne sperare di essere un dì cardinale”.

Ma osserviamo più da vicino le figure dei vari cardinali rinascimentali, i loro palazzi, le loro corti …seguitemi.

Cominciamo con il dire che un fondamento essenziale del potere dei cardinali rinascimentali consisteva nella possibilità di accumulare grandi ricchezze grazie al favore dei sovrani e pontefici ed alla consolidata prassi di dissociare le rendite ecclesiastiche dalle funzioni religiose alle quali erano in origine collegate. Interminabile è, ad esempio, la serie dei benefici che Paolo II volle assegnare ai suoi numerosi parenti “elevati alla porpora”. Pensate che fu valutata in 100.000 ducati l’eredità del cardinale Balue nel 1491, ed addirittura in 300.000 ducati quella lasciata nel 1465 da Ludovico Trevisan di cui, come scrisse il Cortesi: “nemo affluentior in senatoria dignitate fuit” (nessuno fu più ricco in tale carica).

Non meno leggendarie furono le ricchezze accumulate da Rodrigo Borgia durante i 36 anni di cardinalato che precedettero la sua elezione papale, elezione resa possibile dalle ricchezze stesse.

Vi state chiedendo di quali ricchezze si trattava?

Beh, di un elenco infinito di vescovati, di abbazie, di arcidiaconati, di priorati, canonicati, pensioni ed uffici ecclesiastici di ogni sorta, con cui Don Rodrigo Borgia volle insignire suo figlio Cesare (Borgia).

 

Che dire poi di quello straordinario personaggio venuto dal nulla che fu Adriano Castellesi da Corneto?

Un uomo davvero di ottima cultura che, dopo essersi liberato senza troppi scrupoli dai lacci di uno sconsiderato matrimonio, aveva fatto una brillante carriera ecclesiastica grazie all’esperienza nel “maneggio degli affari curiali”, al suo innato talento diplomatico e all’appoggio di papa Alessandro VI, al quale nel 1498 aveva già offerto la bellezza di 20.000 ducati in cambio di “quel cappel rosso” che avrebbe ottenuto cinque anni più tardi.

Il Castellesi fu giudicato “terribile uomo, duro e sinistro”, ma anche dotato di “singulare ingenium”(di particolare intelligenza e cultura) ed inoltre ritenuto “rerum omnium vicarius”(sostituto in tutte le cose), di papa Borgia.  Invischiato però nella congiura di Alfonso Petrucci contro Leone X e privato nel 1518 del cardinalato, sparì quasi nel nulla, e finì ucciso alcuni anni dopo da un suo servo. Con tutte le sue contraddizioni quindi il Castellesi ci offre proprio il vero ritratto a tutto tondo del cardinale rinascimentale e della sua mitica figura.

Tornando a papa Alessandro VI, “quell’uomo carnalesco”, come fu definito in quel tempo, aveva concesso la “porpora” a uno dei suoi numerosi figli illegittimi, il famigerato duca Valentino, nonché ad altri cinque tra nipoti, cugini e pronipoti, e aveva affollato il sacro collegio di personaggi in grado di comprare il “galero” (il rosso cappello cardinalizio) con denaro contante. Uomini, questi, capaci di assecondare la sfrenata ambizione di innalzamento del casato e i vasti disegni di un pontefice che non poteva dirsi soddisfatto di “godersi el papato in pace et quiete”.

Tutti questi “porporati” formavano un “sacro collegio” di dimensioni spaventose; pensate infatti che i cardinali di papa Borgia furono la bellezza di 43.

Ippolito d’Este poi, fatto cardinale nel 1493 a quattordici anni, fece “cavare gli occhi” a suo fratello perché preferito a lui da una donna di cui si era invaghito.

Il suo brillante cugino Luigi d’Aragona, insignito della “porpora” nel 1494, a vent’anni, già vedovo di una nipote di Innocenzo VIII, era anche un principe raffinato, amante della musica e della caccia, della buona tavola e delle belle donne, dei cavalli e del carnevale, in cui si mascherava per “divertirsi a burlar frati”.

Proprio così, un pesante clima di violenza, di dissolutezza, di avidità e di corruzione generalizzata sembrava allora investire l’intero vertice della Chiesa, i cui beni venivano ceduti a parenti ed amici e venduti al miglior offerente, mentre gli stessi cardinali parevano impegnarsi solo nel difendere gli interessi dei propri sovrani e delle proprie famiglie, e nell’accaparrarsi i più ricchi benefici, le cariche più lucrose, dividendosi castelli e città, diocesi e abbazie.

Di qui gli adagi:

“Roma fatta spelonca di ladri …

… e dominata da furfanti di ogni genere”, ed ancora:

“ogni giorno per Roma si trovano la notte quattro o cinque ammazzati, cioè vescovi, prelati ed altri”.

È memorabile l’invettiva scagliata dal Savonarola contro:

“la mala vita de prelati et del clero … la ribalda Chiesa”.

Per non parlare dei criteri seguiti nelle nomine cardinalizie da quel personaggio “di animo grande e forse vasto, impaziente, precipitoso, aperto e libero” che fu il successore di papa Borgia; Giulio II. Principe collerico e bellicoso, “sacerdote solo nell’abito e nel nome” come diceva il Guicciardini, deciso a ristabilire il potere del papa sulla Chiesa e della Chiesa nella nostra Penisola, creatore della grande Roma del Bramante, Raffaello e Michelangelo, Giulio II fu un altro grande maestro nell’utilizzare le nomine cardinalizie per rimpinguare le casse papali.

Certo, il sacro collegio ospitava allora anche personaggi diversi. Uomini colti come Oliviero Carafa, stimato da tutti i contemporanei, considerato secondo il Sanudo “lume exemplar del cardinalato” (luminoso esempio), così come lo “iuriconsultorum princeps” (giureconsulto dei principi) Giovanni Antonio Sangiorgio, o Domenico Grimani, mentre altri erano soltanto rampolli di potenti famiglie aristocratiche.

 

Quelli che però erano pochi, anzi pochissimi, erano gli uomini dotati di una certa consapevolezza religiosa.

Lo stesso vale anche per i “costumi sessuali”, non proprio castigatissimi, di numerosi cardinali di questi decenni, spesso circondati da una prole più o meno numerosa ma quasi sempre legittimata e dotata di una buona rendita ecclesiastica.

Si pensi ai molti ed invadenti figli che il cardinal Rodrigo Borgia aveva avuto dalla celebre Vannozza e che ne condizioneranno poi la politica papale, così come quella di Innocenzo VIII Cibo era stata condizionata dalla necessità di “accasare” adeguatamente il figlio Franceschetto.

Un altro futuro papa, Alessandro Farnese, fatto cardinale a 25 anni nel 1493, metterà al mondo almeno 4 figli, uno dei quali diventerà poi il primo duca di Parma e Piacenza.

E altrettanti ne avrà il cardinal Innocenzo Cibo “dedito ai piaceri mondani e a qualche lascivia”, secondo le parole dell’ambasciatore veneziano, nel 1533.

Così come l’autorevolissimo Ercole Gonzaga, che morirà a Trento come presidente dell’ultima convocazione del concilio nel marzo del 1563.

Pensate che nel luglio del 1506 un diarista pontificio poteva tranquillamente annotare che la morte di un altro membro del sacro collegio era da attribuirsi senza dubbio “alle sue sregolatezze …”.

Ed anche quel “matricolato furfante” del cardinal Benedetto Accolti nel 1549 passò a miglior vita per un’apoplessia causata, secondo i medici “dal continuo et estraordinario bere che ha fatto molti anni e dai molti disordini et donne …”.

Tuttavia resta il fatto che l’energica ripresa che aveva contrassegnato la storia della Chiesa dopo la lunga fase avignonese e dopo la crisi degli scismi e dei sinodi di Costanza e Basilea, aveva offerto qualche possibilità di ascesa ai vertici della gerarchia ecclesiastica anche a quei uomini che si erano distinti per “ingegno e cultura”.

Eh già, perché il ritorno della sede papale in Italia, il confronto non solo diplomatico ma anche intellettuale con il conciliarismo, l’impegno nella politica italiana e lo sviluppo della burocrazia curiale, avevano imposto anche ai pontefici estranei alla nuova sensibilità umanistica di dotarsi di un personale adeguato alle esigenze dei tempi.

Inaugurando quindi una tradizione destinata a durare per oltre un secolo, personaggi come Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni e Ambrogio Loschi erano stati chiamati a far parte della cancelleria papale, così come quel Giacomo Ammannati che nel 1461 fu creato cardinale da Pio II.

Nel 1439 la “porpora” era stata concessa al Bessiarone e al Torquemada; nel 1446 a Tommaso Parentucelli da Sarzana che, eletto papa con il nome di Niccolò V, avrebbe poco dopo avviato la costruzione della “Roma rinascimentale” a partire dalla Basilica di San Pietro, offrendo molte possibilità ai “sommi artisti della sua età” e chiamando alla corte papale “tutti gli uomini dotti del mondo”, dal Bracciolini al Valla a Vespasiano da Bisticci, il quale (Vespasiano) ne volle poi celebrare “il divino ingegno e la notizia universale d’ogni cosa”.

Anche Francesco della Rovere, il confessore del Bessiarone, il generale dei francescani divenuto cardinale nel 1467 e papa nel 1471 con il nome si Sisto IV, aveva trovato nella sua fama di predicatore e di acclamato professore nelle più prestigiose cattedre della nostra penisola lo strumento di una fortunata carriera ecclesiastica che dalle sue umili origini familiari lo avrebbe fatto salire fino ai vertici del potere, di cui si approfittò con il suo nepotismo per tramandarlo anche agli eredi. “Seguitava da quella elezione presso che la rovina della Chiesa di Dio”, scriverà di lui Vespasiano da Bisticci.

Saranno i Della Rovere, qualche anno più tardi, a sostituire i Montefeltro nel ducato d’Urbino, mentre Sisto IV volle chiamare nel sacro collegio ben quattro parenti con il suo stesso nome. Furono 34 i “cappelli rossi” da lui concessi, e fu sotto di lui che il sacro collegio subì un netto cambiamento nella direzione di un forte inserimento del papato nella politica italiana, nei suoi “tortuosi labirinti e nella sua convulsa precarietà”, e nella ostentazione di un lusso spettacolare: “In qualche cosa bisogna che se adoperi lo tesauro della Ecclesia”, annotava infatti un diarista romano che accompagnerà con parole di fuoco e atroci accuse la morte di Sisto IV.

 

Certo non si può dire che questo pontefice, fondatore della Biblioteca Vaticana di cui decretò l’apertura al pubblico, abbia spalancato al sapere le porte della carriera ecclesiastica o chiamato uomini di cultura al vertice della Chiesa.

Sisto IV infatti, principe italiano a tutti gli effetti, preparò il sacro collegio da cui furono eletti prima Innocenzo VIII, “inutile al pubblico bene”, come lo definì il Guicciardini, e poi Alessandro VI, al termine di un conclave in cui le abbazie, i vescovati, i benefici e le lucrose cariche e rendite di Rodrigo Borgia rappresentarono il prezzo dei voti dei suoi colleghi.

Primo fra tutti quell’Ascanio Sforza che, come scriverà Giovio: “Corrotto con larghissimi doni fu principal capo et autore che quello sceleratissimo sopra tutti gli altri uomini del mondo fosse fatto papa”. 

Ma veniamo ora alle corti. Eh si, perché ogni palazzo cardinalizio costituiva infatti una sorta di piccola corte principesca in cui si affollava tutta una schiera di amici, collaboratori, segretari, servi, cuochi, soldati, bravacci, cui si aggiungevano spesso musicisti, pittori, buffoni, e un folto codazzo di parenti e parassiti di ogni genere. Alla vigilia del sacco di Roma del 1527 le 21 corti cardinalizie della Città Eterna andavano da un minimo di 45 persone (i Gaetano) ad un massimo di 306 persone (i Farnese), ma ben 10 su 21 raggiungevano o superavano le 150 persone e solo 4 ne contavano meno di 100. In media quindi tra il ‘400 e il ‘500 le corti cardinalizie si componevano di circa 150 persone, ad alcune delle quali andava l’ambìto titolo di familiaris domesticus (cioè di amministratore della casa), figura giuridicamente riconosciuta con i connessi privilegi ed esenzioni.

Gentiluomini o artisti, collaboratori o umili servi che fossero, in ogni caso tutti erano “bocche”, come allora si usava dire, il cui mantenimento non era semplice. Non furono poche, ad esempio, le difficoltà che anche un “signore grande” come Francesco Gonzaga, fatto cardinale ad appena 17 anni nel 1461, dovette affrontare per trovare a Roma un palazzo in cui sistemarsi con il suo seguito. Riuscite ad immaginare quali spazi abitativi ci volevano per una simile folla?

Stalle, magazzini, attrezzature, approvvigionamenti di grano, olio, vino, legna, foraggio, per migliaia di ducati all’anno, che si aggiungevano a quelli necessari ai pagamenti di salari e pensioni, mentre l’acquisto di edifici di “rappresentanza sociale” comportava spese altissime. Pensate infatti che, ad esempio, non meno di 1.500 ducati mensili era il costo ordinario della corte di Cesare Borgia. Molto realisticamente dunque il Cortesi, nel suo “De Cardinalatu” aveva calcolato che, “la corte di un porporato poteva contare non meno di 140 persone e che la spesa corrente non poteva scendere al di sotto dei 12.000 scudi all’anno”. Senza pensare poi alle vere e proprie montagne d’oro che poteva richiedere la costruzione di una di quelle splendide dimore cardinalizie che ancora oggi si possono ammirare, da palazzo Venezia a palazzo Medici, ora  palazzo Madama, a palazzo Farnese. Si aggiungevano poi spesso i giardini per i soggiorni estivi sui colli e le lussuose ville suburbane, villa Giulia, villa Borghese, villa Phanphili. Ed ancora, i quadri, gli affreschi, le sculture, gli arredi lussuosi per decorare questi palazzi e, soprattutto, i grandiosi monumenti sepolcrali per consegnare ai posteri un’immagine “solenne e imperitura” di se stessi.

“Se morte non interrompeva il corso violento delle sue vaste voglie presto avrebbe dato fondo ai tesori della Chiesa”, si dirà dello sfarzo principesco di quel Pietro Riario, nipote di Sisto IV, che deposto il saio francescano per indossare la “cappa cardinalizia” nel 1471, nei due anni successivi riuscì ad accumulare rendite favolose, ma ben presto dilapidate con banchetti e sontuose feste. Bisogna però comprendere il significato “politico” di tale sfarzo principesco, la dimostrazione di forza e ricchezza che tutto ciò esprimeva, non solo in funzione dei disegni di grandezza “familiari”, ma anche in funzione della dignità della Chiesa e della sua “trionfale esaltazione”.

Era questa la vera “simbologia” del potere e della grandezza che esso comportava. Restarono perciò “lettera morta” i vari tentativi di “una sancta reformatione della Chiesa”, tra i quali la “bolla” del 1514 che prescriveva ai cardinali di vivere “sobrie, caste et pie”(cioè con sobrietà, purezza e religiosità) e di occuparsi con pastorale impegno delle chiese e delle abbazie affidate al governo. Ininterrotte ma vane continueranno quindi in questi anni le invettive contro la corruzione della Chiesa, l’ignoranza e l’ignavia del clero. Come quelle del Savonarola, instancabile nel lamentare che ai calici di legno e ai “prelati d’oro” del buon tempo antico si andassero sostituendo calici d’oro e “prelati di legno”. O quelle del Machiavelli, che attribuiva alla presenza del papato in Italia non solo “la mancata unificazione politica della nostra penisola”, ma anche il fatto che i suoi abitanti fossero diventati “senza religione e cattivi”.

Tra il ‘400 e il ‘500, insomma, la Chiesa costruì se stessa come uno Stato della ricca, colta, splendida Italia del Rinascimento, di cui Roma divenne uno dei centri più fulgidi e una delle capitali politiche.

Ma chiudiamo il nostro racconto con la “pacifica” figura di Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, il quale allievo del Poliziano e destinato fin da piccino alla carriera ecclesiastica, fu nominato cardinale nel 1489 e nel 1513, a 37 anni, quando assunse la tiara (il copricapo del pontefice) con il nome di Leone X, espresse le sue intenzioni con queste parole scritte al fratello subito dopo l’incoronazione: “Godiamoci il pontificato, poiché Dio ce l’ha dato”. Questo illustre personaggio, così “mite e gaudente, che non vorrìa fatica”, amante della poesia e delle cose belle, ma anche delle feste, del carnevale e delle cacce, “deditissimo alla musica, alle facezie e a’ buffoni”, come disse il Guicciardini, e di “somma liberalità, se però si conviene questo nome a quello spendere eccessivo che passa ogni misura”, Leone X, dunque, ebbe il merito di rappresentare l’avvento di un’età dell’oro, di pace e di splendore, in cui le armi e la guerra lasciarono il campo alle arti e alle lettere.

Un’età che per il suo splendore artistico e culturale Voltaire giudicò alla pari dell’età di Augusto e di Luigi XIV.